Walkabout – Under the Same Roof

Il contributo di Maria Korporal all’installazione collettiva “Under the Same Roof”

Il video wall “Walkabout” è il contributo di Maria Korporal all’installazione collettiva “Under the Same Roof”, creata con le artiste Marina Buening, Kristien de Neve e Anita Guerra.

Il video di sopra mostra alcuni estratti della proiezione durante la mostra a Sala 1, Roma, nel maggio 2018.
Il progetto è un work in progress. Una versione nuova e indipendente è intitolata “Songlines”, cliccare qui per vedere info e trailer, ed è stata esposta in varie mostre, tra le quali “Under Another Roof” presso IA&A at Hillyer, Washington DC.

descrizione:
Nella cultura degli australiani Aborigeni, le lunghe camminate nel deserto degli individui che intraprendono il Walkabout* (vedi: Bruce Chatwin “Le vie dei Canti, 1987) svolgono un ruolo essenziale per consentire contatti e scambi di risorse (sia materiali che spirituali) fra popolazioni separate da enormi distanze.
Nel mio lavoro mi sono lasciata guidare da questo concetto. Inoltre sono affascinata dall’idea degli australiani Aborigeni di vedere un “territorio” non come un pezzo di terra determinato, ma come un reticolato dinamico di vie, di tracce, di canti – come descritto tanto bene da Chatwin.
La sequenza video inizia con una proiezione per tutta la superficie, quindi il video si estende all’interno dell’installazione, e cade in parte sull’opera di Anita. L’immagine iniziale è la riva del mare con le eterne fluttuazioni dell’acqua, resa in forma circolare, e la linea bianca della schiuma delle onde si trasforma in spirali e cerchi concentrici. Dopo qualche minuto l’acqua lascia spazio alla sabbia, i cerchi concentrici diventano linee tratteggiate e la proiezione diventa un video-mapping sui 4 riquadri bianchi. In ogni pannello succede una cosa diversa: una mano scava un osso dalla sabbia mentre un’altra mano ci seppellisce una foglia, una tira fuori un foglietto piegato di carta, lo apre e c’è scritto la parola “vita”, le lettere volano via e si trasformano in altre lingue, una mano lancia una pietra da un pannello all’altro – insomma è un gioco di trasformazione e di scambio di oggetti e parole tra i riquadri diversi. Dopo un po’ tutto viene di nuovo allagato dall’acqua del mare e altre scene sorgono dalla sabbia.

* “Walkabout” has come to be referred to as “temporary mobility” because its original name has sometimes been used as an inappropriate term in Australian culture, ignoring its spiritual significance.

descrizione tecnica: Proiezione video in loop su quattro tele quadrilateri che sono collegate con corde di canapa tra di loro e alla costruzione generale di bambù dell’installazione – vedi anche Under the Same Roof
dimensioni e materiali: 4 tele quadrilateri di 50cm2 ca, un videoproiettore e due piccole casse acustiche. La superficie di proiezione è variabile – 150 x 200 cm ca.
durata video: 13’41” in loop
anno: 2018
sound © kangaroovindaloo (terra) e Maria Korporal (acqua)
installazione “Under the Same Roof” © Marina Buening, Kristien de Neve, Anita Guerra, Maria Korporal
video “Walkabout” © Maria Korporal

Foto durante la mostra:

Walkabout di Maria Korporal – foto di Anita Guerra

Walkabout di Maria Korporal – foto di Anita Guerra

Alcune foto e video del work in progress:

 

 

 

Citazione da "Le vie dei canti" di Bruce Chatwin

[ l’ex benedettino aborigeno Flynn racconta a Bruce Chatwin: ]

I bianchi, cominciò, commettevano comunemente l’errore di pensare che gli aborigeni, non essendo stanziali, non avessero nessun sistema che regolasse il possesso della terra. Era una sciocchezza. La verità era che gli aborigeni non potevano immaginare il territorio come un pezzo di terra circondato da frontiere, ma piuttosto come un reticolato di “vie” o “percorsi”.

“Tutte le nostre parole per ‘paese’” disse “sono le stesse che usiamo per ‘via’”.

Il perché si spiegava facilmente. Gran parte dell’outback australiano era costituito da aride distese di arbusti o da deserto sabbioso; là le precipitazioni erano sempre irregolari e a un anno di abbondanza potevano seguire sette anni di carestia. In un paesaggio simile, muoversi voleva dire sopravvivere, mentre rimanere nello stesso posto voleva dire suicidarsi. Il “paese natale” di un uomo era definito “il posto in cui non devo chiedere”. Però, sentirsi “a casa” in quel paese dipendeva dalla possibilità di lasciarlo. Ognuno sperava di avere almeno quattro “vie d’uscita” da seguire in tempo di crisi. Ogni tribù – volente o nolente – doveva intrattenere rapporti con i suoi vicini.

“Così, se A aveva la frutta,” disse Flynn “B aveva le anatre e C un giacimento d’ocra, c’erano regole formali per lo scambio di questi prodotti, e itinerari formali per metterlo in pratica”.

Quello che i bianchi chiamavano walkabout era in pratica una specie di telegrafo del bush con servizio di Borsa, che diffondeva messaggi tra popoli che non si vedevano mai e che avrebbero potuto ignorare l’esistenza degli altri.

“Questo commercio” disse “non era il commercio che conoscete voi europei. Non era il mestiere di comprare e vendere per profitto! Il nostro popolo barattava sempre alla pari”.

Gli aborigeni, in generale, erano convinti che tutte le merci fossero potenzialmente nocive e che avrebbero danneggiato i loro proprietari a meno che questi fossero perennemente in moto. Le “merci” non dovevano necessariamente essere commestibili, né utili. Nulla piaceva di più alla gente che barattare cose inutili – o cose che poteva procurarsi da sé: piume, oggetti sacri, cinture di capelli umani.

“Lo so” lo interruppi. “Qualcuno barattava il suo cordone ombelicale”.

“Vedo che ti sei documentato”.

Le “merci”, proseguì, dovevano piuttosto esser considerate fiches di un gioco gigantesco, il cui tavolo era il continente intero e i giocatori tutti i suoi abitanti. Le “merci” simboleggiavano intenzioni: commerciare ancora, incontrarsi di nuovo, stabilire frontiere, combinare matrimoni, cantare, danzare, condividere risorse e condividere idee.

Una conchiglia poteva passare di mano in mano, dal Mare di Timor alla Gran Baia, lungo “strade” tramandate dal principio dei tempi. Queste “strade” correvano lungo la linea di immancabili pozzi naturali. I pozzi, a loro volta, erano centri rituali dove si radunavano uomini di tribù diverse.

 

(da Le Vie dei Canti di Bruce Chatwin)

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